Che fine ha fatto l’emo?
29/07/2023

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Di questo mare magnum, solo una piccola parte si ritrovò all’improvviso sotto i riflettori delle masse ed era quella più accessibile ai giovanissimi. Una generazione di teenager che, accalappiata dal pop-punk di cui sopra, provava ad espandere i propri orizzonti musicali verso suoni se vogliamo più “ruvidi”, ma che mantenessero al centro contenuti a loro vicini. Una sorta di mostro di Frankenstein capace di fondere gli scream e i breakdown presi dall’hardcore e dal metal ai temi pilastro dentro un episodio qualsiasi di Dawson’s Creek.
Ecco, la cosa che rende l’emo peculiare, forse, è il fatto che la corrente che nei primi anni ’00 ha trovato il favore del pubblico generalista e la grande rilevanza mediatica sia riuscita a minare in toto la credibilità del genere, senza nessun distinguo. Un destino che non è toccato ad esempio al metal, al punk o al rap. In quei casi, anzi, la reazione al successo commerciale è sempre stata quella di dissociare chi lo aveva raggiunto dal genere, come non fosse eventualmente più degno di esserne rappresentante. In questo modo si riusciva a cementare la fanbase attorno all’etichetta di cui si volevano tutelare l’immagine e l’identità, buttando idealmente fuori chi ne aveva sporcato il nome. “Death to false metal” era uno slogan piuttosto usato negli anni ’90, come moto reazionario a tutto quello che in qualche modo stava trovando consenso fuori dalla nicchia, mentre oggi nelle interviste ad artisti hip-hop italiani è molto comune la tendenza a voler segnare il confine tra quello che è davvero RAP e quello che invece deve essere considerato POP, proprio perché l’appartenenza ad una cultura di nicchia è tuttora molto rilevante per il pubblico del genere.
Se vi interessasse approfondire, un buon punto di partenza è l’intervista di Dikele a Fedez, che nel suo essere un pessimo prodotto giornalistico è tuttavia molto utile a chiarire il concetto.
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