Il saldatore del Vajont di Antonio Bortoluzzi

29/09/2023


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C’è il ricordo dei tanti lavoratori che hanno contribuito alla costruzione dell’impianto: quelli che hanno spaccato le pietre, quelli che hanno costruito le torri del calcestruzzo, miscelando sabbia calce e cemento. L’ingresso nella sala comando ricorda un po’ quello della plancia del Nautilus, coi comandi per le 4 turbine, ancora operative, coi generatori dove sulla targhetta sta scritto “ERCOLE MARELLI, MILANO, 1950; GENERATORE SINCRONO TRIFASE”.
Come il dolore per la tragedia, anche l’impianto è destinato a durare per sempre. Diversamente dalle nostre vite, dalle vite dei cinquanta operai morti nella costruzione: perché anche allora come oggi si muore sul lavoro, per inesperienza, per un errore umano. O, come accade sempre più spesso, per mancanza di formazione, di dispositivi di sicurezza.

Nei giorni successivi altri racconti: dell’unico amico del paese che aveva studiato ed era diventato ragioniere, e che si era recato al bar di Longarone per guardare la partita, e non è rimasto nulla né del locale né degli avventori; del taxista di Longarone, sceso la sera a Vittorio per portare dei clienti e che al ritorno non trova più la casa e la famiglia; dell’uomo che vedendo la reazione anomala del suo canarino, ..

Il viaggio nel mondo dei ricordi passa poi ai soldati: nel 1963, all’indomani della tragedia arrivano i primi soccorsi da parte degli alpini della Brigata Cadore, non a dorso dei muli (nell’esercito italiano degli anni sessanta erano ancora presenti questi quadrupedi) ma coi camion a diseppellire cadaveri, recuperare i corpi nudi incastrati sugli alberi.
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Fonte: unoenessuno
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