Le grandi dimissioni

19/09/2023


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Secondo me fai scacco matto a questa lettura quando scrivi qualcosa come: “A chi si chiede come fanno ad abbandonare il lavoro se non hanno un piano B e non hanno subito pronta un’alternativa per pagare l’affitto e le bollette si potrebbe rispondere che il problema di questi lavori è come si riescono a pagare l’affitto e bollette pur avendocelo il lavoro?”. Abbandonare la propria stabilità, per quanto sbilenca, è senza dubbio un passo doloroso e lo si fa per ricollocarsi in modo da tornare ad avere controllo del proprio tempo, che è poi un elemento centrale del libro. Mi stupisce come per decenni si sia parlato della fabbrica come del luogo di lavoro alienante per antonomasia e, ad oggi, nella ristorazione ad esempio, chi lascia si ricolloca anche nell’industria, dove i turni sono codificati in modo più limpido, c’è un’organizzazione produttiva diversa, straordinari pagati…

Un tema che emerge sempre, infatti, è come l’industria, epitome dello sfruttamento nell’immaginario working class sia, oggi, un settore nel quale persone sfruttate che arrivano da altri settori cercano – talvolta – rifugio. Oggi non c’è il cottimo tra i metalmeccanici, ma esiste nel giornalismo, o appunto, nella ristorazione. In contesti produttivi che non sono mai stati considerati epitome “di sfruttamento”, le condizioni si sono a tal punto deteriorate che, in alcuni casi, questa ricollocazione, che può sembrare sorprendente, diventa più comprensibile. In generale, trasversalmente ai settori chi si dimette afferma che c’è un certo limite dello sfruttamento che non può essere valicato –   qualcuno in termini religiosi parlerebbe di dignità. Diventa chiaro, in altre parole, che c’è un limite oltre il quale non si può andare, perché oltre questo limite il lavoro sarebbe pagato troppo poco o chiederebbe troppo. In questi casi, emerge la consapevolezza di valere un po’ di più di ciò che viene dato. In questi casi, chi se ne va, spesso, pensa che il proprio tempo valga di più, che meriti un compenso più alto. Il ragionamento è: non potrò cambiare tutta la struttura produttiva del paese, però posso non lasciarmi uccidere da condizioni umilianti.
Mi è capitato di parlare con tante persone che sono arrivate stremate, magari hanno accettato un lavoro senza contezza di diritti, hanno mollato in pieno esaurimento, non hanno fatto vertenza ma i loro colleghi sì, però da lì in poi – dalla dimissione – hanno messo un paletto e hanno ripreso in mano una sorta di cassetta degli attrezzi.
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Fonte: Il Tascabile
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