Tempo di catastrofi, tempi di liberazione

19/05/2022


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Di “fine del mondo” parlano libri, giornali, canzoni. Come spieghi il fascino di questo fantasma collettivo?

La “fine del mondo” è un palinsesto di narrazioni diverse usate quando non ci sono le parole né le azioni per dire e praticare il conflitto, riconoscere lo sfruttamento e la violenza, cercare il riscatto e una strada per la liberazione. Direttamente e indirettamente giustifica il capitalismo e la sua immensa accumulazione di disastri, quello che prospera sull’impotenza generalizzata. Con la guerra in corso questa narrazione è stata rafforzata. Si è tornati a parlare di “terza guerra mondiale” con la minaccia di uso delle bombe atomiche. Si ripropone il discorso dopo Nagasaki e Hiroshima. Allora il filosofo tedesco Günther Anders aveva ricontestualizzato la fine del mondo alla luce del nuovo pericolo. In questa espressione c’è però un grande alleato che di solito passa inosservato. Ernesto De Martino ha distinto una “fine del mondo” dalla “fine di un mondo”. Il mondo di cui si teme la fine oggi è quello del capitalismo che assicura un liberismo per i ricchi e un nazionalismo per i poveri. L’idea verosimile della “fine del mondo” è in realtà il frutto di una decontestualizzazione che garantisce il mondo dei dominanti e non quello degli oppressi. L’evocazione della catastrofe finale serve a garantire i primi e a mantenere i secondi nella subalternità. Quella che viviamo realmente è la crisi di una forma culturale specifica, un’apocalisse culturale l’ha chiamata De Martino. Ciò che terrorizza è la fine del “capitalista umano”.
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Fonte: Il Tascabile
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